L'Europa che ci manca
Celebrare la Giornata mondiale dei mondiali e dei rifugiati nel gennaio 2017 ci fa sentire non solo la nostalgia per l'adulto che ci manca, ma anche di un'Europa che ci manca e che non riconosciamo più.
Per il resto, rileggere un testo di qualche anno fa può aiutare a non cadere in depressione, ma a ricordarci che il Vangelo ha sempre la capacità di far rianimare ogni esistenza.
L'adulto che ci manca
Epilogo
Armando Matteo
Gli adulti di oggi non sono più quelli di una volta.
È, questa, dunque la principale evidenza cui giungono le nostre riflessioni. L'idolo del giovanilismo ha radicalmente trasformato il modo concreto con cui i genitori, gli educatori, gli adulti in genere, approcciano il loro essere al mondo e di conseguenza la loro fondamentale relazione con le generazioni più giovani. Il risultato più eclatante è quello di vivere in mezzo ad una società che ama la giovinezza più degli stessi giovani, rendendo sempre più accidentato il percorso di crescita e di distacco dall'orbita familiare di questi ultimi.
Alla base di tale radicale adulterazione dell'età adulta si colloca una triplice crisi: crisi dell'autorità, dell'amore e del desiderio, che sono i cardini elementari di ogni processo educativo fecondo. Per questo abbiamo dovuto registrare con una certa preoccupazione che oggi è diventato sul serio difficile educare e trasmettere la fede. I due gesti elementari che caratterizzano la vitalità e vivacità di ogni civiltà umana - il generare e donare al mondo dei figli e la consegna di una pratica di devozione e di pietas con cui accompagnare il mai facile mestiere di vivere - ci sono diventati sempre di più alieni. Forse impossibili. Per tale ragione, poi, le nuove civiltà che dall'Africa, dall'India, dalla Cina si affacciano sulle nostre terre, ci possono sfidare, nonostante il divario economico che ancora ci separa da loro, con un orgoglio e con una fierezza che in parte ci spaventano. Loro ancora sanno cosa significa fare figli e pregare.
Da noi invece il deserto cresce, sotto la spinta di logiche neocapitalistiche per nulla interessate all'umano e alla sua felice destinazione. Il mercato must go on! A qualunque costo: anche al costo del sangue della generazione che viene. La quale, tuttavia, per strade e vicoli che non sempre attraggono l'attenzione generale, quel deserto sta imparando ad abitarlo diversamente, sfidandolo e affrontandolo con pratiche di nuova umanità. Siamo alle prove generali, è vero. Ma lo spettacolo che si annuncia non di meno lascia affiorare speranza. Il deserto può sempre fiorire, annuncia il profeta biblico.
Ebbene, rispetto a tutto ciò, la comunità ecclesiale ha da giocare la sua parte. Il grande tema della vita buona del Vangelo, cui essa ha deciso di destinare le sue forze per gli anni che ora ci sono dati, trova qui un osso duro con cui confrontarsi a viso e cuore aperti. Alla luce di quanto sin qui appuntato, il compito per il tempo che ci resta è facile ad essere enunciato: dobbiamo rievangelizzare l'adultità.
Dobbiamo cioè - come ci ricorda Pierangelo Sequeri - restituire attrattiva specifica e dignità morale all'ambizione di essere adulti. E giunta l'ora, ed è questa, di smettere di apprezzare solo la giovinezza e solo ciò che farmaceuticamente e chirurgicamente vi rassomiglia. Crescere non è il peggiore dei mali possibili, non è la più grande delle maledizioni che possa toccare ad un essere umano, impastato di storia e di desiderio. C'è vita oltre la giovinezza.
Ci è richiesta, insomma, una nuova misericordia verso la verità dell'umano: misericordia per la vita così come è, misericordia per la nostra finitezza e fragilità, misericordia per il pezzo di terra che ci è dato e che dobbiamo lasciare ad altri, misericordia per quella bellezza che con lo scorrere delle stagioni ci abbandona e con essa i capelli e i denti e il vigore del fisico e dell'animo, misericordia per i sogni che non abbiamo realizzato e che dobbiamo affidare ad altri, misericordia per le ferite che le strade del mondo portano sul vivo della nostra carne e della nostra anima, misericordia per la finitezza radicale che tocca l'essere umano con l'esperienza della morte.
Non è compito facile questo. Lo abbiamo detto e argomentato più volte. Di fronte a noi si erge maestoso il Leviathan del mercato, che non conosce misericordia né pietà. La sua buona novella è appunto quella della giovinezza: della giovinezza come grande salute, come performance, come bellezza, come filtro magico di successo e di sessualità, come libertà di poter revocare ogni scelta e iniziare daccapo. Ma questa giovinezza è anche e soprattutto censura di tutte quelle esperienze fondamentali e fondanti dell'umano, quali il limite, la mancanza, la malattia, la vecchiaia, la morte, grazie alle quali si cementano l'esistenza e il vincolo misterioso tra le generazioni.
Contro questo incantamento e incatenamento del mondo degli adulti attuali bisogna tirarsi su le maniche: c'è un sonno dogmatico in mezzo a noi circa la vera cifra della vita buona, che richiede appunto un deciso investimento di profezia, di liberazione, di risveglio delle coscienze. Non di solo giovinezza vive l'uomo (e la donna).
Il lato positivo di questo lavoro è anche facile da intuire ed enunciare, a questo punto. Liberare dall'incantamento della giovinezza, infatti, significa sostanzialmente permettere agli adulti di scoprire che ciò che ogni idolo promette e non dona è quell'amore di cui abbiamo bisogno per poter amare noi stessi, quella benedizione di cui abbiamo bisogno per poter benedire noi stessi, quell'ospitalità affettuosa e misericordiosa di cui necessitiamo per poter ospitare con affetto e misericordia noi stessi. Nessun idolo è capace di ciò. Dirò di più: nessun essere umano è capace di ciò. Né mio padre né mia madre né mio fratello né mia sorella né mia moglie né mio marito né mio figlio né mia figlia né il mio amante né la mia amante né il mio compagno né la mia compagna. Nessuno, proprio nessuno.
La parola del Vangelo è al riguardo di una precisione chirurgica: Ama Dio è la prima parte dell'ordine (giusto) dell'amore (Le 10,27). È una priorità ontologica. Tutti vogliamo amore. Ma il punto di partenza, per il Vangelo, resta quell'Ama Dio. Riconosci cioè innanzitutto e soprattutto Dio quale presenza benedetta e benedicente sulla tua vita. Corrispondi al Suo amore. Da qui devi partire. Per non perderti nell'avventura della vita, devi partire dal cielo. E questo amore precedente di Dio, che siamo chiamati a riconoscere, ad autorizzarci ad amare, accogliere, ospitare la nostra esistenza. Allora puoi amarti perché sei amato, allora potrai amare gli altri come te stesso e te stesso nella verità di quel mistero che ciascuno di noi è, senza aver più bisogno di botulino, viagra, yogurt regolarizzanti, bevande energizzanti, cocaina, e tutto l'armamentario della nostra lotta continua contro la vecchiaia, la malattia e la morte.
Un nuovo più chiaro annuncio di questo amore di Dio, di questo amore verso Dio attende i credenti di oggi. Di conseguenza urge pure maggiore impegno per diffondere quella parola che da parte a parte di quell'amore è eco, testimonianza, appello: la Parola appunto.
Sempre su questo versante propositivo, si dovrà ancora molto lavorare per avviare una nuova iniziazione alla preghiera degli uomini e delle donne del tempo presente. Lo spazio e il tempo in cui prende forma concreta il dialogo amoroso tra l'uomo e Dio sono lo spazio e il tempo della preghiera. Oggi però non solo la gente non conosce più le preghiere, più radicalmente ha perso il senso stesso della preghiera, del pregare. In verità, noi preghiamo in quanto riconosciamo il nostro essere "precario" e lo accettiamo senza risentimenti e frustrazioni. Si può essere, infatti, (un) precario solo in forza di una preghiera ascoltata, nella misura di un permesso concesso: la preghiera accolta è la condizione di possibilità di ogni precarietà. E la vita umana è fortemente segnata dalla precarietà, dalla finitezza, dalla mancanza, dal limite, che sono pure risvolti della nostra singolarità e irripetibilità. Proprio per vivere con verità questa situazione ci serve pregare. La preghiera è il luogo con cui venire a patti con quella mancanza fondamentale che segna il mistero dell'uomo sulla terra e nella storia. È singolarmente preciso al riguardo un passaggio del Prefazio Comune IV della Messa: «Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie; i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva, per Cristo nostro Signore». Ponendoci dinanzi all'istanza di Dio, la preghiera ci dona la grazia di poterci riconciliare con noi stessi, di sfondare la cappa soffocante delle nostre preoccupazioni e idiosincrasie, di rimettere la nostra causa e la nostra fatica, il nostro patire e il nostro lottare alla speranza di un futuro e di una promessa possibili, di poter finalmente immaginare la nostra mancanza.
Iniziare o meglio re-iniziare alla preghiera, alla preghiera personale, alla preghiera quotidiana, alla preghiera degli adulti soprattutto, è la grande via perché la fede possa di generazione di generazione riprendere il suo cammino.
Resta, infine, un ultimo profilo che deciderà la buona volontà della comunità ecclesiale di giocare la sua parte in questo delicato passaggio d'epoca. Riguarda la verità e la forza con cui saprà interrogarsi e riformarsi al suo interno. Detto francamente, se oggi Nietzsche camminasse in mezzo a noi, non diminuirebbe di uno iota le sue sprezzanti critiche ai cristiani. Continuerebbe ancora ad accusare di "monotonoteismo" le loro liturgie, a denunciare l'invidia e i risentimenti che li divorano, a dire a gran voce che pur con tutto l'incenso di questo mondo non riescono a levarsi di dosso l'odore e il tono di funerale perenne presente nelle loro chiese, a gridare ai quattro venti la terribile evidenza che è proprio la tristezza dei loro volti la prova delle prove che da quel sepolcro nessuno sia uscito.
È tempo, dunque, di risolversi a sciogliere quel nodo tra fede e depressione che fin troppo contraddistingue l'espressione corrente della vita cristiana. Per cui a volte non si capisce se alla fine dei conti si va in chiesa perché si è depressi ovvero se si è depressi perché si va in chiesa. Cosa significa, allora, per l'esistenza umana aver fede, aver trovato presso Dio misericordia, aver scoperto di essere da Lui amati infinitamente di più di quanto sia possibile pensare, aver sperimentato la liberazione dal peccato e dai falsi idoli, aver ricevuto in dono la promessa di cieli nuovi e di terra nuova? Esiste, insomma, un'allegria dell'essere cristiani? È questa allegria dell'essere cristiano l'autentico antidoto contro ogni idolo e in particolare contro l'idolo della giovinezza. Se invece l'incontro con i fratelli e le sorelle nella fede è formale, se la partecipazione è dettata dal solo precetto, se la vita liturgica è ripetitiva con canti che risalgono a Giuseppe Garibaldi, possa Dio avere misericordia della sua Chiesa!
L'esperienza della fede di per sé tonifica, irrobustisce l'anima, la mente e il corpo. Si dovrebbe perciò scommettere di più sul fatto che la depressione della fede non è il destino del cristianesimo. Per questo ai credenti serve il coraggio di interrogarsi sulla qualità umana della propria fede, sui sentimenti che l'accompagnano, sui ritmi che essa frequenta, sulla musicalità che essa sprigiona o meno, e sulle relazioni che grazie ad essa nascono.
Il pensatore Charles Taylor ha rimproverato alla comunità cattolica di aver marginalizzato il carattere "festivo" della dimensione religiosa propria di ogni essere umano: cioè il carattere di gioia, di letterale ri-creazione, di ospitalità, di elaborazione del negativo, di interruzione, che è efficace preludio ad una nuova e più convinta irruzione, immissione nella quotidianità.
A questo riguardo, si potrebbe efficacemente evocare il momento in cui Mosè, dopo l'esperienza presso il roveto ardente, si presenta dal faraone e gli comunica la parola che ha ricevuto dal Signore: «"Lascia partire il mio popolo, perché mi celebri una festa nel deserto!"» (Es 5,1b). E interessante notare che il faraone non solo dice di no, ma addirittura fa aumentare il lavoro a carico degli Ebrei. Il faraone ha come paura di una festa: un popolo che suda sangue, che è trattato male, che è ridotto in schiavitù, che è costretto a lavorare di più per aver osato chiedere una festa, non fa paura; ma un popolo che si raccoglie in festa, un popolo che danza, un popolo che canta, un popolo che alza gli occhi al cielo del suo Dio, un popolo che fa esperienza del gusto della gioia, è pericoloso. Il faraone non teme certo che quella festa chiesta da Mosè possa essere l'occasione propizia per una fuga. Sarebbe stato facile organizzare un efficace presidio militare per scongiurare tale eventualità. Ciò che in verità il faraone teme è che la celebrazione di quella festa possa diventare occasione per una liberazione spirituale di quel popolo di schiavi. La liberazione della loro anima. Da buon politico, egli sa che ad ogni liberazione spirituale segue sempre, prima o dopo, con le buone o con le cattive, una liberazione politica. E, questo, è un prezzo che nessun faraone di ieri come di oggi può permettersi.
(Armando Matteo, L'adulto che ci manca, Cittadella 2014, pp. 103-109)
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