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In tempi di "sovranismo", gli sconfinamenti di Gesù nella Decàpoli pagana (cf. Mc 7,31-37) ci ricordano anzitutto la sua libertà. Guardando qualsiasi cartina si capisce che il falegname di Nazaretz diventato rabbino avrebbe potuto fare un altro percorso, ma la ragione ultima di questa deviazione è teologica, non geografica. Qualsiasi navigatore sarebbe impazzito appunto perché il "ricalcolo" del percorso è dettato non dalla fretta di arrivare prima da qualche parte, ma dall'urgenza di rivelare i segreti del Regno. A tutti. Sì, perché il "popolo" di Gesù non conosce confini: è semplicemente l'umanità malata. Il punto è che in genere noi pensiamo che i malati siano sempre gli altri.
Ecco perché i primi ad essere spiazzati (dopo il navigatore) sono i discepoli, che fanno fatica a comprendere la logica di questa deviazione. In questo scenario Marco - unico tra gli evangelisti - racconta la guarigione di un uomo sordomuto. La sua situazione è iconica di un drammatica solitudine: isolato da ogni forma di relazione, quell'uomo è costretto ad esprimersi con dei gesti. Non per fare il simpatico ragazzotto ammiccante, ma perché non ha altri mezzi. L'umanità ridotta a segni (oggi li chiamiamo più simpaticamente "emoticon"), priva del dono della parola, è estremamente impoverita.
Sembra esattamente il ritratto di un'umanità sempre più "smart" ed "emozionabile" eppure sempre più povera di relazioni vere. I gesti narrati da Marco ai nostri occhi appaiono come arcaici. In realtà manifestano una nuova creazione: l'azione delle dita, la saliva, lo sguardo al cielo, la parola creatrice ("Effatà"). La ricreazione dell'umano è offerta a tutti. Ma c'è una corsia preferenziale: Dio ha scelto i poveri come i primi destinatari delle sue meraviglie. (cfr. Gc 2,1-5). Non è un'opzione classista, ma un segreto del cuore. Perché ci sia "meraviglia", infatti, è necessario che ci sia qualcuno capace di assegnarle il suo nome.

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