I conti giusti

Fino a non molti anni fa, quando ancora l’iniziazione cristiana era popolarmente intesa come “andare a dottrina”, si continuava ad “insegnare” che “credere” significa aderire alle verità del Vangelo elencate nel Simbolo della fede (il “Credo” domenicale). 
Questo modo di presentare le cose, che pure ha trasmesso la fede, tendenzialmente ha fatto pensare a molte generazioni che l’esperienza del credere fosse in fondo in fondo una questione “di scuola”, per cui una persona poteva essere “convinta” o “poco convinta”, nel senso di “credente” o “non credente”. Addirittura “atea” o “agnostica” per i palati più fini. 
In ogni caso si trattava di prese di posizione legate alle proprie idee, più che a scelte di vita che toccavano gli affetti più cari. 
In realtà, i Vangeli presentano il seguire Gesù come una questione anzitutto affettiva: Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami… 
Si segue Gesù e il suo Vangelo perché lo si ama. “Mi ami tu più di costoro?” chiese Gesù a Pietro un giorno e non era una domanda teorica.
“Voler bene a Gesù” non è una frase che invita all'infantilismo della fede, ma il modo più semplice per esprimere alla fine la sua radice più profonda, che ingloba anche la dimensione conoscitiva. Non si tratta di contrapporre la testa al cuore, ma di scendere in profondità.
Ecco perché è importante sedersi prima a “esaminare”, cioè a fare bene i conti. Proprio come un re saggio.







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