Fino alla follia


Colui che mangia me vivrà per me (Gv 6,57).
È una frase da brividi quella che pronuncia Gesù nella sinagoga di Cafarnao. Appare come il discorso di un folle.
I primi cristiani hanno dovuto lottare con i denti per difendere il significato autentico di queste parole contro ogni banalizzazione fuorviante. Non si tratta di "antropofagia", come denunciava Celso, anticipando le riserve dei razionalisti di tutti i tempi. Non si tratta nemmeno di una dipendenza malsana o di una "relazione tossica". Niente di tutto ciò. 
Paradossalmente, “mangiare Cristo” significa piuttosto essere “mangiati” da Lui. Conformati a Lui, assomiglianti a Lui. Chi cerca di essere "cristiano", in fondo, cerca di vivere questo. Perché credere, in fin dei conti, vuol dire vivere per Lui. 
Fuori dall'amore, questo discorso appare pura follia. Eppure, noi siamo fatti proprio così: viviamo nella misura in cui riusciamo a vivere per qualcuno. Qualcuno, non qualcosa. Qualcuno, non “una buona causa”. Siamo affamati ed assetati di relazioni e di senso. La nostra vita ha un senso solo se possiamo prenderci cura di qualcuno. Almeno in forma di promessa, come impegno. In effetti, Gesù non coniuga entrambi i verbi al presente, ma al presente e al futuro: chi mangia me, vivrà per me. Quel Corpo è pegno di vivere nel dono di sè. Nella quotidianità e nel nascondimento dei giorni. “Vivrà per me” è la carta di identità del discepolo, la "sigla" di un desiderio di trasformazione. E quando si perde il tracciato della strada, il fare memoria di quelle parole riconduce al Pane della vita. Questa è la vita eterna: una relazione senza fine con Colui che è il Vivente, che considera la nostra vita come preziosa ai Suoi occhi. Nulla ci può allontanare o separare da Lui nel misterioso viaggio della vita. Perché il desiderio è più potente della stanchezza e della fatica. Il desiderio di Dio può risorgere anche dalle ceneri delle nostre forze e stupirci nuovamente. 
E “contagiare” in senso positivo la vita di molti!

Buona domenica!

Don Stefano



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